
Chiunque abbia letto le “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” avrà appreso che il diavolo si annida nei dettagli.
Ecco.
Non è vero.
Assolutamente.
In alcun modo.
Con qualunque dose di incertezza.
Non è vero che un grande romanzo deve essere perfetto al dettaglio e non è vero che il diavolo si nasconde in lui.
Piuttosto direi che ci sono delle grandi cose che gli scrittori fin troppo ignorano.
Ad esempio?
Direi avere chiaro fin da subito chi sono e in cosa credono.
O in cosa quantomeno pensano di credere. O non credere.
Mi spiego meglio tornando sempre al solito George R.R. Martin con cui mi accanisco almeno quanto lui si accanisca su sé stesso.
A lui non è chiaro ciò in cui crede. Se crede nell’uomo, nella politica, nei giovani o nei vecchi, in Dio o in qualcos’altro. Non ha neanche la forza però di sostenere di non credere in niente.
Ecco tutto ciò che resta di lui è nichilismo confuso e passivo. Non regge il confronto con un J. R. R. Tolkien che non crede affatto nell’uomo, che fa fallire l’uomo nella maniera più pessimistica del mondo. Ma che crede in Dio, ed è quella la sua forza, mostrarti ciò in cui crede.
Non indottrinarti, come fece invece C.S. Lewis con “L’Ultima Battaglia” che ti grida nelle orecchie per tipo tutto il libro “credi in Dio, idiota!”. Non è questo il punto del mio discorso. Uno scrittore non deve sbatterti in faccia il suo pensiero in maniera ottusa. Uno scrittore però deve sbilanciarsi sicuramente sulla propria visione del mondo.
Non parlo solo di credere in Dio.
Philip Pullman non crede in Dio, crede nell’uomo e soprattutto crede nella donna. Crede nella sua Lyra che salva dalla morte e che vede la verità.
Questo è uno scrittore che prende posizione, infatti ebbe problemi con la Chiesa proprio per la sua presa di posizione così assoluta.
Uno scrittore deve sapere che cosa crede perché è quello il messaggio del suo libro.
Dostoevskij è bifronte quanto a questo, prende posizione solo nel momento in cui l’alternativa è quella di sbattere la testa contro il muro.
Camus non crede, e ci mostra di non crederci.
Herman Melville in Moby Dick ti dice: questo è il limite umano, da qui in poi, tu non sei niente, fattene una ragione.
Concetti chiari e definiti.
Ma anche banalmente un’autrice come la Rowling in maniera meno maestosa di Tolkien mostra una sua credenza. Quella della forza del bene di fronte all’estrema destra che avanza, che chiude porti e frontiere e insinua che alcuni animali siano più eguali di altri.
Il diavolo è quello. Non il dettaglio. Non è assolutamente il dettaglio.
Il diavolo è l’elefante della stanza. Che si può anche evitare di affrontare, ma che rimane lì. In attesa e paziente. L’elefante è ciò che rimarrà di una storia.
La saga dell’Attraversaspecchi si è incasinata perché non aveva chiaro cosa voleva raccontare. Se la storia di una ragazzina che non sa crescere, oppure la storia di Dio e del mondo. Non sapeva bene in cosa credeva in questo senso, e in cosa non credeva. Doveva dividere il mondo in bene e male e poi ribaltare tutto. Ma non aveva chiaro nemmeno cosa fosse bene e cosa fosse male. E infatti l’ultimo libro è un pastrocchio anche ideologico oltre che narrativo.
Per questo insisto tanto sull’importanza di un finale che dia senso alle cose. Che dia un messaggio. Per questo tanti autori si perdono proprio sul finale. Perché non hanno mai avuto chiaro il senso profondo di ciò che volevano dire.
Il finale da un senso al personaggio cattivo, se viene punito allora l’autore crede nella giustizia.
Da un senso a quello buono, che se arriva spezzato come Frodo in LOTR significa che c’è qualcosa in un uomo di troppo fragile e che solo Dio può curarlo.
Ma da un senso anche a Harry che non sente più la cicatrice perché quella follia ideologica che gli ha tolto tanto è stata respinta.
Da un senso a Lyra che pur separata da Will lo sente vicino in quel finale meraviglioso di “Queste Oscure Materie”.
Insomma senza finale un’opera non ha detto la sua.
E se l’autore non ha le idee chiare sulla propria fede, sono guai.
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